di Alberto Castaldini
Nel volume “Fuoco e fiamme. Storia e geografia dell’inferno” (Torino, Einaudi, 2024, 270 pp.) Matteo Al Kalak, professore di storia moderna all’Università di Modena e Reggio Emilia, offre un’ampia disamina della concezione dell’inferno nella riflessione teologica e nelle opere spirituali dell’età della Controriforma. E lo fa esaminando un vasto insieme di testi religiosi, teologici e spirituali.
In particolare, Al Kalak affronta nel suo libro il tema della realtà fisica e tangibile dell’inferno nella visione religiosa dei decenni successivi al Concilio di Trento fino all’alba della contemporaneità, quando la riflessione teologica ed esegetica si sarebbero misurate col dibattito filosofico e il nascente metodo storico-critico. Fisicità e trascendenza sono dimensioni da sempre coesistite nella visione dell’inferno, dalla dottrina cristiana all’indagine biblica, grazie a una rappresentazione che ritroviamo nella Scrittura come nella tradizione letteraria più celebre: una su tutti la Divina Commedia di Dante e il suo grande influsso sulla cultura e l’immaginario dell’Occidente.
La ribellione di Satana e degli angeli decaduti, la grande battaglia nel cielo con le schiere angeliche fedeli guidate dall’arcangelo Michele, la sconfitta e la precipitazione delle legioni ribelli nell’inferno, sono la serie di eventi che costituiscono la tradizionale premessa teologica di un’interessante produzione letteraria di contenuto spirituale e edificante. Lo scontro nel cielo è al centro del poema del teologo, filosofo e poeta siciliano Antonino Alfano, “La battaglia celeste tra Michele e Lucifero” (Palermo, 1568), dove si descrive in versi il peccato di orgoglio e superbia del diavolo, per l’odio e il rifiuto del mistero dell’Incarnazione. Nella visione di Alfano, il principe delle tenebre con la sua scelta ha gettato le fondamenta del suo regno in cui vengono relegate le sue schiere. La nascita degli inferi diventa ben presto un tema ricorrente nella letteratura dell’epoca successiva al Concilio tridentino, come nella “Caduta di Lucifero” (Napoli, 1613), poema in versi del poeta e giurista campano Giovan Battista Composto, in cui Lucifero, venuto a conoscenza dell’Incarnazione si rifiuta di adorare Cristo vero Dio e vero uomo. Gli angeli guidati da Michele, fedeli a Dio, manifestano il loro sdegno e vincono le schiere ribelli. A quel punto una voragine si apre sulla terra e Lucifero con gli altri viene rinchiuso nelle “profonde caverne” degli inferi. L’inferno per secoli costituì nella letteratura religiosa e mistica un luogo fisico, geografico, associato alle profondità terrestri come ai fenomeni geologici e vulcanici osservati sin dall’antichità (il Composto non a caso era nativo di Pozzuoli, nell’area dei Campi Flegrei). E tale fu l’immagine ripresa dagli artisti, come nelle tavole cinquecentesche del pittore manierista senese Domenico Beccafumi (1486-1551) dove si rimarca il trionfo degli angeli fedeli a Dio e la condanna del capo delle schiere infernali in oscure cavità illuminate da fiamme e bagliori.
La descrizione dettagliata dell’inferno nelle opere di teologi e moralisti aveva un intento catechetico e pastorale, poiché ogni richiamo all’esistenza reale di quel luogo tenebroso si proponeva di modellare i comportamenti e ispirare le scelte dei fedeli allontanandoli dal peccato. Un’opera emblematica è quella del milanese Antonio Rusca, dottore dell’Ambrosiana, canonico del Duomo di Milano e autore del “De inferno et statu daemonum ante mundi exitium” (Milano, 1621). Il Rusca fa propri gli indirizzi pastorali del cardinale Federico Borromeo, e nella sua opera illustra le profondità infernali, i tormenti che vi si consumano, descrive gli inferi presso gli altri popoli del mondo (aiutato in tal senso dai testi presenti nella Biblioteca Ambrosiana), spiega al lettore la natura e la sorte dei demoni dalla creazione sino alla fine dei tempi. Cartine e mappe completano l’opera del Rusca, che da teologo ricorda che l’inferno è un luogo reale e il suo ordine è espressione della giustizia divina in proporzione delle colpe individuali.
Il tema delle pene e dei supplizi, nonché della percezione degli spazi infernali, trova nel gesuita pistoiese Giovanni Pietro Pinamonti, compagno di predicazione del padre Paolo Segneri, un autore così rappresentativo al punto che uno dei suoi testi, “L’inferno aperto al cristiano perché non v’entri” (Bologna, 1688) verrà ristampato fino alla metà dell’Ottocento. Nel testo del Pinamonti i sensi dell’uomo sono coinvolti in ogni pena infernale descritta, con l’aggiunta di incisioni estremamente espressive raffiguranti le anime dannate e le loro pene. Lo stile dell’autore presenta finezze letterarie notevoli come in questo passaggio dove descrive la percezione visiva dei dannati: “è vero che sarà quivi il fuoco, ma vi sarà spogliato di luce”. A ciò si aggiunge “l’estremo fetore” e il senso di una terribile claustrofobia, sebbene “non c’è né occhio, né orecchia, né cuore che possa figurarsi degnamente il gastigo”. Il padre Pinamonti fu anche esorcista e autore del manuale “Exorcista rite edoctus, seu accurata methodus omne maleficiorum genus probe, ac prudenter curandi” (Venezia, 1712). Altra rinomata opera del tempo fu “La prigione eterna dell’inferno” del predicatore gesuita modenese Giovanni Battista Manni (Venezia, 1666), testo di meditazione illustrato da ventitré incisioni che suscitavano forte impressione in chi le osservava. L’opera ebbe una diffusione europea, e fu tradotta in tedesco, ceco e polacco, grazie alla vicinanza del padre Manni con i membri della corte asburgica e alle sue missioni nei territori imperiali.
Concludendo, il volume di Matteo Al Kalak – che è, fra l’altro, il responsabile del progetto di digital library ad accesso libero per la messa online dei più antichi documenti dell’Inquisizione Romana –offre un’utile e interessante rassegna storico-letteraria sulla concezione dell’inferno in età moderna, intrecciata con l’analisi del dato culturale e dell’immaginario, prima dei più recenti dibattiti teologici che hanno “dematerializzato” (o persino “svuotato”) l’inferno quale luogo reale del libero, volontario e consapevole rifiuto dell’amore divino, ovvero “stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati” come invece ribadito dal Magistero e dal Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 1033).
In copertina: Domenico Beccafumi, “San Michele scaccia gli angeli ribelli” (1535) (part.). Chiesa di San Niccolò al Carmine, Siena.